Chi sta rubando la lingua al non profit?

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Risposta: nessuno.

Nei due gruppi Facebook italiani dedicati al fundraising mi è capitato più volte di leggere che

il profit vende rubando il codice linguistico del non profit

Qualcuno afferma quindi che il profit ruba la lingua del non profit. La lingua o meglio, come solitamente dice chi lo afferma, il “codice linguistico”.

E cioè: il profit starebbe utilizzando a proprio vantaggio immagini, parole, suoni propri e tipici della comunicazione del non profit.

La realtà è che da sempre più il profit è maestro nella comunicazione che provoca emozioni: uno spot, qualsiasi sia la finalità (immagine, reputazione, vendita, coltivazione) e il canale scelto (radio, tv, web advertising, giornali… scegli tu) sa far ridere e far piangere, di cuore e di pancia. E, se sei nel target giusto, ti fa fare l’ultimo passo verso l’acquisto.

La pubblicità-tipo del profit rappresenta un mondo che desideri e anticipa a livello emotivo come ti sentiresti facendone parte. Fa friggere valori, credenze, emozioni che per te sono identitarie; più ti scaldi, più senti l’urgenza di un’attivazione; quando questa attivazione si compie nell’azione, la tua identità ne esce rafforzata. E’ una serie compiuta che sedimenta affermazione di sè e che genera sicurezza personale.

E’ “fuggire dal dolore” o realizzare un desiderio. In ogni caso la comunicazione del profit intercetta problemi percepiti (e la sola cosa che importa è la percezione individuale di quale e cosa sia il problema), fomenta ad un’azione il cui compimento (acquisto? lasci dei dati? firmi qualcosa? fai partire questo video?) risolve il problema sentito e ti appaga.

In sintesi, il gioco diventa:

  1. emissione di comunicazione atta a provocare emozioni, che
  2. genera emozione, che
  3. facilita il compimento di un’azione, che
  4. provoca soddisfazione del destinatario, che
  5. genera affermazione di sè, che
  6. realizza il rafforzamento dell’identità, che
  7. predispone a ripetere la sequenza quando si emette nuova comunicazione

Questo può avvenire in modo semplice e quasi ripetitivo perché il famigerato codice linguistico rende un messaggio comunicabile da una parte e comprensibile dall’altra. E il codice linguistico è un insieme complesso di simboli, vocaboli, segni nelle loro declinazioni visive, sonore, ma per esteso anche olfattive, gustative e tattili).

Per questo parlare di “codice linguistico del non profit”non ha nessun senso. Il non profit non ha un suo codice linguistico. Come nemmeno il profit!

Il non profit, tanto come il profit, non ha un codice linguistico da difendere o che gli appartiene: l’unico codice linguistico che gli dovrebbe interessare è quello del destinatario del messaggio, che sia un individuo a una nazione intera.

Viceversa, quando si cerca a tutti i costi il “nuovo”, il “brillante”, il “rivoluzionario” si scade rapidamente nella comunicazione che si compiace di sè e che rischia di essere tremendamente inefficace e spocchiosa.

Il codice linguistico è cultura ancestrale e moderna, cambiamenti e sedimentazioni sociali ed economici epocali, maturazioni e variazioni anagrafiche, è sistema di valori e credenze che si esprime in parole, immagini, suoni, gesti.

E quindi: ma chi mai starebbe rubando la lingua al non profit?!?

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