Articolo dello chef du fund Liborio Sacheli. Grazie!
Per la rubrica “IN SOLDONI: quando il piccolo fundraising cambia il mondo”, intervistiamo oggi Chiara Sacchetto, collaboratrice della Cooperativa Sociale Esperanto e socia di Libera, Associazioni Nomi e Numeri contro le Mafie. Chiara vive attualmente in un bene confiscato alla ‘ndrangheta, Cascina Caccia, a San Sebastiano da Po (TO).
Ciao Chiara e grazie per condividere con noi oggi un pezzo di cammino e di lotta per cambiare il mondo. Entriamo subito nel vivo e parlaci un po’ della Cooperativa Sociale Esperanto che qui rappresenti.
La Cooperativa Sociale Esperanto nasce nel 2018 in Campania, tra Castel Volturno e Cancello Arnone, in un bene confiscato alla camorra dedicato a Michele Landa, un metronotte di Mondragone con la passione per l’agricoltura. Sono 10 ettari sotto il Vesuvio confiscati a Michele Zagaria.
La zona è tristemente nota come “terra dei fuochi”, ma ovviamente quei terreni non sono inquinati: mica scemi i camorristi, non smaltiscono i rifiuti a casa loro.
La Cooperativa nasce con l’obiettivo di fare rete sul territorio e generare un impatto positivo, mettendo a fattor comune competenze, conoscenze e voglia di cambiare le cose, a partire da un insieme di esperienze e vissuti diversi:
Alessandro, da sempre impegnato in progettualità sul recupero dei beni confiscati e uno dei primi assessori italiani con delega specifica (fino al 2014 non si sapeva nulla di beni confiscati a Castel Volturno); Katia, sua moglie e attuale vicepresidente, e poi Gennaro, Tommaso, Thomas e altre persone che sono passate dalla cooperativa e hanno dato una mano. Quest’anno la Cooperativa è entrata nella NCO, Nuova Cooperazione Organizzata, un consorzio di cooperative che quotidianamente sfidano la camorra.
E tu come ci sei arrivata dal Piemonte a Castel Volturno?
Il 21 luglio 2017 partecipai a un campo scout a Castel Volturno. In quell’occasione, Alessandro annuncia ad Angelina Landa che avevano preso in gestione un bene confiscato, e che sarà intitolato al padre. Esattamente un anno dopo, ho iniziato a lavorare con la cooperativa, dopo che il bene era stato incendiato. L’ho preso come un segno, e mi sono tuffata.
Insomma, vi siete rimboccati le maniche dopo l’incendio. E oggi di cosa vi occupate nello specifico?
Abbiamo una parte produttiva, poiché quello di Cancello Arnone è un territorio a vocazione prettamente agricola. Noi coltiviamo prodotti tipici che rischiano anche di andare persi, prevalentemente pomodoro e grano. Di recente, la pandemia ha accelerato un processo posto in essere in precedenza, ovvero l’implementazione di pratiche di sanificazione per aziende.
La nostra è una cooperativa sociale di tipo misto A-B, il cui obiettivo principale è l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate e fragili: pensiamo alle persone con dipendenze e alle vittime di caporalato, un tema assai discusso nel territorio.
La scelta di lavorare poi con vittime di caporalato è perché, oltre alla vocazione agricola, tutta l’area è soggetta a fenomeni di caporalato da più di 30 anni. Dove ci sono distese di pomodoro, ci sono anche distese di braccia che raccolgono, distese di persone che soffrono.
Non da ultimo, la natura multietnica del paese: Castel Volturno è stata definita “la città più nera d‘Europa”, perché arrivavano africani che trovavano alloggi di fortuna per raccogliere pomodori d’estate, per poi spostarsi stagionalmente a raccogliere altro. Insomma, una terra ardente di riscatto, sia delle persone, che del territorio stesso.
Arriva la domandona: come vi sostenete?
Non lo nascondo, inizialmente facevamo una fatica immensa per anticipare tutto, poi riuscivamo a vendere i prodotti. A un certo punto abbiamo anche sfruttato il foraggio, “affittandolo” ad altre cooperative, tra cui la Terre di Don Peppe Diana che produce mozzarelle di bufala.
Ci siamo sostenuti nel tempo con le campagne di pre-acquisto, che noi abbiamo definito di sostegno alla progettualità: abbiamo proposto alle persone di anticipare il 40% del totale dell’ordine, per poi saldare alla consegna dei prodotti. Il 40% ci permette di avviare la produzione, ovvero di stipulare contratti con i lavoratori e comprare le piantine, i semi e tutto il necessario per le coltivazioni.
Sembra brutto, e lo è, da dire, ma l’onestà e la dignità costano per le persone che cerchiamo di reinserire nel tessuto della società: costa fare un lavoro etico, costa pagare il giusto, costa garantire la disoccupazione ai lavoratori stagionali, costa smaltire i rifiuti, costa raccogliere seguendo le tre stagionature del pomodoro rispettando la terra e rispettando l’essere umano. E non è sempre così facile, per quanto questa è la nostra sfida! Abbiamo anche partecipato a bandi, ma alcuni non sono partiti per il Covid. Quello che ci ha aiutato è stato il tour!
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Che tour?
Racconti, Radici e Riscatto. La prima edizione è del 2018, poi nel 2019, pausa forzata per il Covid e adesso stiamo ripartendo. Un format misto di cene ed eventi serali, dalle 50 alle 250 persone, pronte ad ascoltare racconti di caporalato, radici della nostra vita agricola declinate in tema ambientale e sociale, nella cornice del riscatto sociale del territorio. Difatti è un modo per raccontarci, far conoscere i nostri prodotti, venderli per auto-sostenersi e valorizzare la rete di contatti esistenti (acquisendone di nuovi): ci hanno aiutato gruppi scout, parrocchiali, gruppi informali di amici con diverse competenze.
Nelle due edizioni abbiamo organizzato 14 tappe in giro per l’Italia con mezzi di fortuna e la cooperativa in spalla: il cuoco, il forno, i prodotti, che sono stati accolti dai territori con affetto e voglia di aiutare. Ricordo ancora i divani, piatti di pasta offerti alle 2 di notte e la disponibilità disinteressata, gratuita, volta allo scambio di vissuti, esperienze e idee.
Ad un gruppo parrocchiale di Lucca abbiamo dato dei semi di grano, che hanno piantato e da cui è nato un progetto di giovani per co-gestire un bene comune con la comunità del luogo. Anche questo è nato dal tour, che, come si dice in gergo, ha registrato il tutto esaurito!
Un vero e proprio riscatto! Ma, a proposito di impatti generati e di sostenibilità della cooperativa, quanto vi sentite fundraiser?
Se il fundraiser è la persona che si arrabatta per cercare strumenti per avviare progetti, allora sì! (ride, nda).
Siamo sempre stati con l’acqua alla gola, ci siamo inventati delle cose per starci dentro (come partire con un furgone che potrebbe non arrivare al nord Italia).
Ci siamo chiesti se fosse giusto farlo noi, anzichè una politica che dovrebbe assicurare certi servizi, che invece vengono assicurati solo nelle e dalle realtà di prossimità come la nostra.
In un mondo concorrenziale come questo, in cui fare cooperazione è difficile perché la coperta è troppo corta, riconosciamo di avere una responsabilità grossa: parliamo di vittime, di camorra, di caporalato. E non possiamo arrenderci. Allora forse siamo diventati fundraiser per necessità, per non deresponsabilizzarci e per non accontentarci della pacca sulla spalla da “gestite il bene, siete bravi”, così come decidere di non gestire un bene confiscato perché puoi farci profitto.
Lo fai perché è un atto politico, perché vuoi prenderti cura di un pezzo di mondo che non può essere lasciato alle “cooperative multinazionali” che vincono tutti i bandi e che, purtroppo, non hanno quella componente di prossimità.
La nostra è una responsabilità, forse alternativa, ma possibile perché vogliamo che i nostri diventino esempi di quotidianità, e non di straordinarietà.
Quindi sì, un po’ fundraiser lo siamo, anche perché sentiamo nostra la necessità di raccontare cosa succede, di denunciare ingiustizie e provare a trovare soluzioni che prevedano la condivisione, la partecipazione e la corresponsabilità. Da persone, da esseri umani, non da supereroi.
Ringraziamo Chiara per aver condiviso la sua esperienza e un pezzo della sua vita.
In soldoni, cosa ci lascia questa chiacchierata dalle tinte rossopomodoro (la passata della Cooperativa è buonissima, nda!)?
- Coinvolgere donatori e sostenitori esplicitando i costi di struttura è possibile. Certo, con un prodotto buono come la passata di pomodoro e un po’ di attività commerciale è più semplice, ma cosa possiamo fare nelle nostre piccole onp per arrivare a chiedere quello che è, effettivamente, un anticipo di donazione? Che ok, c’hanno pensato quelli di Scalapay a sdoganare i pagamenti in più rate, ma se riuscissimo a generare un impatto valido a breve-medio termine, quanto sarebbe motivante per tutte quelle persone che donano perché il cambiamento vogliono vederlo realmente, più o meno nell’immediato? Magari è solo una speculazione di pensiero, magari per molte delle nostre cause non è possibile avere un effetto a breve termine, ma chissà!
- Raccontarsi con onestà, aprendosi alle relazioni e parlando un linguaggio comune paga, sempre. Belli gli slogan, belle le sponsorizzate, belli i piani editoriali, ma se non siamo in grado di parlare al cuore delle persone sarà tutto inevitabilmente in salita. Facciamolo davanti a una pizza o a un buon piatto di pasta, magari va meglio!
- Fare fundraising vuol dire assumersi ogni giorno una grande responsabilità, di cui dobbiamo essere consapevoli. Un atto politico che riguarda noi, le nostre comunità, i beneficiari e gli utenti. Il nostro modo per prendersi cura di problemi e contesti abbandonati chissà dove nell’agenda politica del Paese, per i quali vale ancora la pena battersi.
* Tutte le foto contenute in questo articolo sono di Cooperativa Sociale Esperanto.