E’ il giorno della riscossa (se hai coraggio di dire cosa sei)

E’ il giorno della riscossa (se hai coraggio di dire cosa sei)

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C’è stato un periodo troppo lungo in cui tagliare corto mi andava bene.

Inutile girarci intorno: tu ed io che ci occupiamo di fundraising / faundraising facciamo un lavoro “fuori dalla media”. Di sicuro nel classico tema “Cosa vuoi fare da grande?” non hai mai scritto

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” Da grande voglio fare il fundraiser / fangspurger! “

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Beh, del resto i tuoi genitori non si occupavano di fundraising, manco i nonni. Ma mi sa neppure i genitori e i nonni dei tuoi amichetti e amichette! Impossibile quindi che nella testa di te-a-6-anni ci fosse questa proiezione. Avrai voluto fare l’avvocato, abbellire il mondo con i fiori, spegnere incendi, curare le persone, allevare animali… ma di certo non volevi “raccogliere fondi”!

Qual è il tuo mestiere, ragazzo?

Contro ogni pronostico e previsione, oggi invece la tua professione (poco importa se a full, a part-time, in avvio o consolidata) è cercare soldi. Il tuo pane quotidiano è cercare banconote, monete, assegni, bonifici, bollettini da mettere a frutto per fini di utilità sociale.

Si, il tuo mestiere è andare a caccia di soldi ogni santo giorno. Il che fa di te una specie di venditore delle buone cause, un ibrido a metà tra un commerciale astuto e un cavaliere errante con una principessa da salvare.

E’ un lavoro cazzutissimo e di un’importanza enorme: sei la persona che porta sangue ossigenato all’organismo, quel flusso costante di linfa vitale che determina la vita o la morte di un organizzazione, di un progetto, di un sogno, di una visione, di una missione. Le metafore che possono descrivere il frutto del tuo lavoro si sprecano.

Non so te, ma io oggi mi sento molto consapevole della complessità, utilità e bellezza di questo lavoro.

Però

per un lungo tempo ho commesso un grave errore, quello che ho annunciato all’inizio del post: ho tagliato corto. Alla domanda “Cosa fai di lavoro?” la mia risposta per tanto, troppo tempo è stata una variante di

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” Faccio l’operatore / mi occupo di amministrazione / seguo l’ufficio stampa di questa o quella onlus “

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Sono sicuro che un po’ ti riconosci in questa risposta, cioè ci rivedi le tue. Perché mai ridurre ai minimi e sbagliati termini le riflessioni di cui sopra?

Per me questa “pigrizia” nasceva da un fatto: ogni volta che ho provato a spiegare il mio lavoro di fundraiser / fonfraster il riscontro tipico è stato:

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” Ah! Ce ne fossero di più di persone come te! Ma lavori anche? “

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Agli estremi, per il mix di pigrizia e sottile irritazione, la mia controbattuta sarcastica ammazzava la discussione con:

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” No, mi approfitto dei disabili, dei vecchietti e del buon cuore della gente per tirare a campare. Ahahah! “

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Fine della non-discussione, parliamo d’altro. Magari del tuo lavoro, che facciamo prima a capirci.

Alla radice del senso

Ora, non so te, ma io credo nel potere della parola: cioè sono convinto che il sistema infinitamente complesso che è la persona trovi risorse e nutrimento nella parola, pensata o pronunciata, che utilizziamo. Fermati lì: non sto parlando di roba tipo “vietato usare i no, usa solo forme positive” e “ogni mattina guarda lo specchio e urlati << sei bravo! >>”.

Parlo dell’etimologia, la scienza che studia l’origine e il senso delle parole: quando esplori l’etimologia ti rendi conto che nel linguaggio quotidiano usiamo con leggerezza concetti e suoni che hanno una forza tellurica. Ti faccio un esempio: una parola bellissima e di uso “leggero” di cui amo l’etimologia è “entusiasmo” che letteralmente si può tradurre

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” con un Dio dentro di sé “

da enthusiasmòs – en (in) + theos (dio) [/feature_box]

#esticazzi! Altro che

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” Dai, mettici un po’ di entusiasmo! ” [/feature_box]

Quando ne approfondisci l’origine e il senso, le parole si ravvivano del proprio potere costruttivo. Cioè, usarle consapevolmente aziona dei meccanismi mentali ed emotivi. Torniamo ad “entusiasmo”: ammetti che ti verrà da usarlo con più cura e attenzione ora che ne conosci l’origine e il senso. Cioè, gli riserverai un utilizzo speciale, per descrivere in maniera potente un certo stato d’animo e situazione. Per questo, evitando di cadere nel vocabolario del self-empowerment, usare la parola in maniera appropriata può mettere in agitazione dei moti interiori (psichici, emotivi, fisiologici) e sedimentare una certa immagine di sè quando la usiamo per riferirci a noi stessi e a quello che ci coinvolge direttamente.

E’ l’ora della riscossa

Il mio percorso di crescita personale mi porta a comprendere che per vivere bene e con pienezza per me è essenziale:

  • ricercare una grande coerenza tra passioni, lavoro e vita privata: nel tema delle elementari scrivevo che volevo fare l’avvocato (ho capito molto più tardi che era una forma per questa sostanza: aiutare chi da solo non può difendersi), il massimo divertimento da adolescente era fare volontariato, il lavoro che ho scelto è quello di fundraiser. Silvia e la mia famiglia rappresentano queste tensioni ognuno per la sua parte, le mie amicizie altrettanto… tutto quadra.
  • concentrarmi sul maggior sviluppo possibile di solo alcune delle mie abilità: come ogni persona, mi riescono bene o mi trovo a svolgere tutta una serie di attività che sono utili ma che non mi esprimono pienamente. Nel momento in cui una certa attività ti riesce particolarmente bene e allo stesso tempo ti chiama a sè, devi puntare molto su quella. Se poi riesci a farlo con spirito e metodo imprenditoriale ancora meglio, puntaci tutto: puoi costruirci un progetto di vita e famiglia. Ma nel 99,9% dei casi ogni persona di Vero talento ne ha uno solo (dove talento = avere una propensione + farsi il mazzo per crescere in quell’ambito).
  • riconoscere in quel che faccio l’espressione di una missione personale e verso il creato: con la dovuta leggerezza e altrettanta convinzione e ammettendo con piacere le frivolezze, voglio dedicare la vita a qualcosa che lasci un segno del mio passaggio. Questa parte devo ancora elaborarla a livello concettuale, ma ne sento il bisogno e la tensione nel profondo.

Mi ci è voluto un bel po’ a rendermene conto, ma di fatto questi tre fondamentali si unificano in quello che faccio di lavoro, o meglio in quel che sono tutti i giorni e per la maggior parte del tempo:

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” Io sono un fundraiser ” [/feature_box]

E anche tu lo sei. Se avessi voluto fare un mestiere di ripiego… beh, ne avresti scelto un altro. La complessità di questa professione e le sue particolarità escludono che tu lo faccia per curiosità o per mancanza di alternative. Fai e sei  fundraiser perchè lo richiama dentro di te una vera ispirazione. Ti potrà capitare di cambiare mestiere nella vita, o ti potrà capitare di non trovare le condizioni economiche per mantenere questo lavoro, purtroppo potrà andare così. Ma lasciami affermare con grande trasporto che la tua assenza sarà un grande peccato per te e una perdita per il tuo contesto di riferimento.

Chi sei tu, fundraiser?

Attorno a questa concezione antropologica di me e di ogni fundraiser, ho cercato stillato una lista di parole chiave e ne è venuta fuori una definizione composta da parole grosse e potenti.

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” Io sono un facilitatore che permette alla parte migliore delle persone di esprimersi per un bene comune ” [/feature_box]

#esticazzidue. E chi sei? Mandrake?

No, sei un fundraiser. E ora vediamo che cosa davvero sono e che cosa tu sei. E’ l’ora della riscossa.

Prendiamo quella frase e spezziamola. Ripartiamo dall’etimologia e dove non ci soccorre, centriamo comunque un senso.

Il fundraiser è:

  • facilitatore (da facilitare = rendere qualcosa più facile, agevolarla) = tu ed io non creiamo nulla. Rendiamo solo più semplice farlo uscire allo scoperto.
  • parte miglioreLord Baden Powell era solito dire che “In ogni persona c’è almeno il 3% di buono ed è questo su cui un capo deve lavorare”. Se Le persone hanno non il 3% ma almeno il 30% se non il 60% o 80% o 110% di buono si cui lavorare. Ce l’hanno già ed è questo che è tuo compito far uscire allo scoperto. Nello specifico per te questa parte migliore può prendere il nome di generosità o altruismo.
  • personetu ed io lavoriamo per buone cause che potrebbero anche essere tipo il restauro delle tazzine della Regina di Prussia, ma alla fine il nostro lavoro è verso, con e sulle persone. Sempre. Sempre!
  • esprimersi (da exprimĕre = “premer fuori”). Di nuovo: non si crea nulla, faciliti altri a premere fuori da sè qualcosa che già c’è.
  • bene comune = il nostro lavoro verso le persone produce felicità (bene = ciò che rende felici) e benefici che riguardano il sostenitore e che lo superano per impattare positivamente sui beneficiari diretti, indiretti e il contesto allargato.

Se concordi con tutto questo, allora questo non è solo un lavoro, è una funzione e un ruolo sociale.

La scivolata sarebbe riassumere tutto con “sei educatore“. Ma no: sei fundraiser. E la profondissima differenza tra te e un “educatore” è che la tua funzione si compie per mezzo del denaro.

Il denaro libera le persone

Arrivati qui per assurdo potrebbe rimanerti il dubbio sulla quel che fai. Perché se è vero che la tua funzione sociale si compie attraverso il denaro, essere sicuri della purezza di chiedere denaro non è così scontato. Credo che questo sia dovuto a un retaggio culturale e antropologico piuttosto gravoso: il denaro si scambia con degli oggetti o prestazioni. Se il denaro lascia una mano e questa mano non stringe nulla in contraccambio, i nostri istinti lo associano alla sparizione, al furto, allo smarrimento, al raggiro… nulla di emotivamente positivo.

Ma il processo del dono di cui tu come fundraiser devi essere assolutamente consapevole ha a che fare con un solo aspetto della condizione umana: la libertà.

Liberandosi di ciò che più di ogni altra cosa ha l’utilità di produrre un tornaconto personale, le persone rompono le catene dell’obbligazione e si esprimono nella loro parte migliore: la generosità e l’altruismo.

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L’opportunità di donare è la massima espressione di libertà e il vero senso del tuo lavoro è facilitare questa esperienza di totale libertà.

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In questo senso 1 € vale come 1 milione di €. Se in te serpeggiano pensieri sulla taccagneria delle persone anzichè sulla generosità delle persone, mettili nella scatola delle cazzate: la verità è che tu non puoi conoscere nulla delle condizioni economiche delle persone e sui loro processi decisionali. L’unica cosa che puoi constatare è la loro generosità nel momento in cui si liberano di ciò che potrebbe portargli un utilità personale. Fine. Pensieri diversi ti portano fuori focus anziché centrarti sul tuo ruolo sociale di fundraiser e sullo sviluppo de tuo percorso.

Questo è il lavoro più bello del mondo

Capisci l’importanza di quel che fai e quanto grande è l’opportunità di essere fundraiser?

Sono sicuro di si, altrimenti avresti smesso di leggere ben prima di qui. Questo articolo non parla di tecnica, che arriva dopo le tattiche. Non parla di tattiche, che arrivano dopo la strategia. Non parla di strategia, che viene dopo l’organizzazione. Non parla di organizzazione, che viene dopo la cultura sul fundraising. Non parla di cultura, ma parla dell’origine di tutto. Di tutto quel che puoi fare e che puoi essere e che puoi realizzare assieme alle piccole e medie organizzazioni con cui lavori e lavorerari: questo articolo parla della presa di coscienza del tuo ruolo nella società.

Quando hai coscienza del senso vero del tuo fare fundraising allora eviterai facilmente il mio errore e anzichè farla breve, la farai non lunga, bensì semplice. La prossima volta che te lo chiederanno risponderai:

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” Io sono un fundraiser “[/feature_box]

e a seguire avrai un sacco di argomenti per comunicare che il tuo è il lavoro più bello del mondo e quanto grandiosa è la scelta di vita che hai fatto.

Ti auguro una vita radiosa, fundraiser!

Un abbraccio color Natale, Buon Anno nuovo e …avanti tutta!

– Riccardo –

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