Movimentiamoci! Un ritorno all’attivismo

Movimentiamoci! Un ritorno all’attivismo

Scarica o stampa questo post

Articolo scritto con The Good Social.


Il 26 gennaio 2023 si è tenuto il terzo appuntamento di #socialchangers, al centro dell’incontro l’esplorazione dell’attivismo e la sua evoluzione, soprattutto nell’era post-covid – momento in cui alle piazze delle nostre città si sono sostituite le piazze digitali.

Nel corso della tavola rotonda, che ha visto coinvolti Andrea John Dejanez (Fridays For Future Torino), Luigi Secondo (Visionary) e Giovanni Chiarella (Future Vox), guidati da Marta Etrelli e Isabella Lalli, sono stati investigati i diversi modi di fare attivismo da quello online a quello di piazza, guardando alle diverse formazioni e i diversi livelli di informalità e alle relative difficoltà.

Inevitabile, nel confronto, partire dal definire cosa sia l’attivismo. La Treccani definisce l’attivismo come la “tendenza a intensificare il lato attivo, creativo, innovativo della vita umana“. Più specificatamente “concezione etica fondata sull’idea del supremo ed esclusivo valore della esplicazione dell’attività vitale (volontà di vita e di potenza)”. Una definizione che, come ci dice Giovanni Chiarella, “non ha emozioni, non rimane impressa”. 

 

Molto più coinvolgenti sono le definizioni dei relatori. Andrea John Dejanez spiega che per lui:

fare attivismo è mettersi in gioco e provarle tutte; ingegnarsi in ogni maniera per migliorare un po’ il mondo in cui viviamo”.

Giovanni Chiarella usa invece la metafora del viaggio dell’eroe rappresentando l’attivismo come “la struttura e le persone grazie alle quali gli eroi compiono le loro azioni”. In questo modo – continua Chiarella – fare attivismo significa “mettere a disposizione il proprio corpo per sostenere e promuovere cause sociali e ambientali”.

Come abbiamo già visto nel corso dei precedenti incontri, il Covid ha portato molte battaglie a muoversi unicamente nello spazio digitale (tra piattaforme e social network) assumendo così nuove forme. Ora che siamo tornati a poterci incontrare, a poter scendere in piazza, l’attivismo non può però più prescindere da entrambe le dimensioni dell’online e dell’offline. 

Come ci dice Luigi Secondo, infatti:

è fondamentale avere l’attivismo in piazza perché è quello che poi dà un risultato effettivo di visibilità che porta ai risultati, però l’attivismo online è molto più leggero e semplice da abbracciare ed è fondamentale per fare eco. […] Probabilmente poi la soluzione ibrida è quella che porta a risultati più efficaci”.

Anche Giovanni Chiarella ce lo conferma: “viviamo in un mondo in cui coesistono il digitale e il mondo analogico e quindi è inutile interrogarsi su cosa sia più efficace perché sicuramente è efficace un attivismo che comprende entrambi”.

In questo contesto, è inevitabile che anche l’attivismo online, come quello offline, non sia esente da limiti che portano a interrogarci sulla sua natura e sulla reale efficacia. Questo a partire dal fenomeno dello Slacktivism, termine che già negli anni Novanta era associato al limitato contributo che si pensava le giovani generazioni potessero dare per innescare un cambiamento semplicemente partecipando a una manifestazione, firmando una petizione o con una donazione sporadica.

Con l’avvento dei social questo termine ha iniziato a comprendere anche le azioni compiute online: mettere un like, ri-condividere un post, utilizzare un hashtag. Tutte azioni che avrebbero un impatto minimo o nullo nel portare avanti una lotta ma che aiuterebbe chi le compie a sentirsi gratificato e partecipe.

Ad esempio, gli hashtag hanno iniziato ad avere una crescente forza dirompente. Basti pensare al #metoo, al #blacklivesmatter o al più recente #mashaAmini.

Come ci dice Luigi Secondo:

lo slacktivism ha il contro di far sentire le persone gratificate quando hanno semplicemente ripostato l’hashtag […]. Però far circolare una campagna online è un bene perché raggiunge molte più persone che non tramite passaparola. […] Permette anche di avere l’attenzione su situazioni che altrimenti sarebbero molto lontane da noi”.

Anche Giovanni Chiarella ci ricorda che “non bisogna demonizzare le piccole azioni di attivismo” e non bisogna isolarle nei ragionamenti ma è necessario guardarle all’interno di una strategia di attivismo più ampia. Ed è compito dell’organizzazione che sponsorizza una petizione fare in modo che chi contribuisce apponendo semplicemente una firma incrementi la propria partecipazione e coinvolgimento.

 

Un altro fenomeno sempre più consequenziale alla socializzazione delle lotte e alla loro condivisione da parte di content creator è il social washing. L’attenzione a tematiche sociali da parte degli influencer rischia di trasformarsi in uno strumento di marketing. Spesso, infatti, il pubblico si trova di fronte a un’immagine di “facciata” che serve a migliorare la reputazione del content creator senza che quest’ultimo sostenga realmente le cause con azioni concrete. 

Come ci dice Giovanni Chiarella: “viviamo in un sistema capitalistico ed è ovvio che gli influencer, molto spesso, ragionino come le aziende e il loro lavoro è quello di monetizzare. I soldi però, non arrivano da vere azioni di attivismo ma dall’essere visti da tante persone. Non bisogna quindi stupirsi se, legato all’azione di attivismo, si crea il gancio per monetizzare”

Anche Luigi Secondo concorda affermando che spesso il confine tra l’attivismo digitale e il washing è molto sottile: ci sono alcune situazioni lampanti e facilmente riconoscibili e altre che risultano, invece, più ambigue. 

Ma, per quanto sia necessario fare attenzione a queste forme, come afferma Andrea John Dejanez, il fatto che gli influencer si schierino può tornare utile in quanto riescono a raggiungere un pubblico ampio. 

La difficoltà a riconoscere il vero impegno sociale è altrettanto presente quando si parla del mondo corporate e del brand activism. Anche in questo caso, come per gli influencer, il confine tra il vero supporto alle cause sociali e ambientali e il marketing è molto labile. 

Dietro la facciata del sostegno a cause sociali o ambientali popolari come la sostenibilità ambientale, la diversità e l’inclusione o la lotta contro il cambiamento climatico, spesso purtroppo, non vi sono azioni concrete, come investimenti in tecnologie sostenibili o politiche di assunzione inclusiva, ma solo la scelta imprenditoriale di migliorare la propria immagine seguendo quelle che sono le tendenze all’acquisto degli ultimi anni.

Fenomeno che, in parte, è anche il risultato delle crescenti richieste da parte delle nuove generazioni che ritengono che i brand debbano scendere nell’arena del sociale nel tentativo di risolvere i problemi più urgenti che affliggono la società. 

I relatori ci invitano a riflettere perché è importante fare alcune differenze! 

Ricordando il caso di Patagonia, e sottolineando che in ogni caso è molto difficile arrivare a una filiera a impatto zero in un sistema di produzione di massa, Giovanni Chiarella sottolinea la necessità di distinguere tra chi crea nuovi modelli aziendali reinvestendo tutti gli utili e chi, attraverso la CSR, cerca di riposizionarsi sul mercato migliorando la propria immagine e, solo in un secondo momento, investe parte dei ricavi in una causa sociale. 

Molte grandi aziende stanno infatti evitando di impegnarsi realmente – ricorda Andrea John Dejanez. A livello di marketing – aggiunge Luigi Secondo –  gesti plateali come organizzare une evento o regalare le borracce sono linee d’intervento molto valide per far aumentare i profitti. Al contrario, impegnarsi seriamente in cause sociali è percepito come qualcosa che non paga, che non dà un ritorno immediato di aumento di profitto, frenando molto l’azienda dall’avere un impatto reale. Tutto questo, ancora una volta, ci mette di fronte alla necessità di un quadro legislativo che lavori in questo senso.

Il valore dell’attivismo è quello di porre l’accento su tematiche che altrimenti rimarrebbero un sottofondo della nostra quotidianità, nel riconoscerli e nel dar loro dignità, ricordandoci sempre che le lotte non sono mai “a sè”, che non è possibile parlare di sostenibilità ambientale senza guardare alle disuguaglianze economiche, al gender gap o ai diritti civili più in generale.

 

Jessica Ambrosino & Sara Ferro – Ideatori e organizzatori di #Socialchangers

Instagram the Good Social

Isabella Lalli – Ideatrice e organizzatrice di #Socialchangers

isabella.lalli@officinebuonecause.it

 

 

Scarica o stampa questo post

Lascia un commento