Un numero sconosciuto sul display del cellulare, una piccola realtà che mi chiama perché ha problemi di bilancio, una breve chiacchierata per fissare un appuntamento. Segno data e ora nell’agenda di carta (non amo Google Calendar), la stessa agenda in cui ho annotato, sul fondo, domande e risposte ricorrenti nei miei primi colloqui.
Come un disco volante all’inizio mi schiantavo contro queste paure che mascheravano domande, ma col tempo ho imparato a riconoscerle, catalogarle e dribblarle appena appaiono all’orizzonte.
Negli anni mi sono convinto che tutte le piccole realtà dal fundraiser cercano in primo luogo le tre “S”: sicurezza, sollievo, speranza. Le chiedono in maniera sempre un po’ diversa, eppure ottenute queste tre cose abbassano le difese e ti lasciano avvicinare. Non è facile, almeno non a Brescia e provincia.
Provo allora a darvi un podio delle paure più frequenti in cui mi sono imbattuto, del bisogno che io vi ho letto dietro e di come le affronto nel quotidiano.
N.1 La mazzata economica. (Quanto mi costa?)
La paura principe, il primo dubbio, il chiodo fisso di ogni piccola realtà. Quando faccio un colloquio salta fuori entro il terzo minuto, subito dopo i saluti e il caffè. Di solito è accompagnata da un cambio di espressione, un sorriso che si spegne, un tono di voce che perde ogni convivialità.
🙁 Quanto mi costa?
È assolutamente comprensibile: nel sociale il budget annuale viene calcolato al millimetro, spesso solamente sui costi vivi e sempre al limite del pareggio. Una spesa imprevista potrebbe far collassare l’intera programmazione, o semplicemente non essere sostenibile.
Inoltre, chi si rivolge a me, ha assistito a un graduale peggioramento delle entrate associative e scorge in lontananza lo spettro del bilancio in rosso. Pensare ad un ulteriore spesa, in quel momento, è un po’ come pensare ad un prelievo… mentre stai sanguinando da un grosso taglio sul braccio.
Questa è la paura che, secondo me, cade nel campo della “sicurezza”.
Il futuro della realtà è incerto, la situazione da qui a un anno sconosciuta, la soluzione possibile misteriosa. Stanno camminando sul ghiaccio e vogliono una superficie sicura. Scomoda, ma sicura.
Per quel che ho visto questa paura si disinnesca parlando in modo brutalmente schietto.
Non indoro la pillola, comunico la cifra per la mia consulenza: una cifra unica, immediatamente quantificabile, non soggetta a ricalcoli e variazioni. Do loro un dato preciso, l’appoggio sicuro. Ora non sono più un’incognita, conoscono il mio costo esatto, possono iniziare a razionalizzarmi.
L’atteggiamento cambia, si distende, comincia davvero il dialogo. A questo punto bisogna aggiungere altre sicurezze, trasformare il singolo appoggio in un percorso che possono percorrere. Io uso il pagamento personalizzato: dividiamo insieme la cifra singola in più rate e stabiliamo insieme la prima rata ad una distanza di tempo tale da poter vedere le prime donazioni.
Altra sicurezza: non sono soli, il momento difficile lo affrontiamo insieme.
Se tutto ha funzionato a dovere la realtà dovrebbe rendersi conto che, se si lascia accompagnare e segue le indicazioni, potrebbe raccogliere abbastanza soldi da coprire interamente la mia consulenza. Sanno quanto spendono e sanno come faranno a coprire quel costo. La collaborazione può iniziare.
N.2 La brutta figura. (Cosa penseranno gli altri?)
Può sembrare strano, ma questa è la seconda paura più frequente nei miei colloqui. Di solito esce intorno al minuto numero venti, quando parlo loro di rendere pubblica la raccolta fondi. Si guardano smarriti (di solito a colloquio sono almeno in due), borbottano, tirano il freno a mano del discorso.
😳 Ma poi gli altri cosa pensano?
Li capisco. Quando ero piccolo una pubblicità diceva: per l’uomo che non deve chiedere mai. Ecco, la società di oggi fa di questa frase un stile di vita. Il self made man, l’uomo che si è fatto da solo, è un modello da seguire, un esempio di successo. Io invece sto chiedendo loro di chiedere aiuto, chiederlo pubblicamente, e questo può essere visto come ammettere una sconfitta agli occhi di tutti. Siamo spaventati dall’idea di aver bisogno della altre persone, non ci piace dirlo ad alta voce. Una dinamica perversa, ma a cui quasi nessuno è immune.
Questa è la paura che, secondo me, cade nel campo del “sollievo”.
Sono spaventati, hanno vergogna, si sentono vacillare. Cercano un appiglio, qualcuno a cui aggrapparsi. Quando succede io di solito aggiro l’ostacolo con una piccola “mossa del capro espiatorio”: non dovete farlo voi, lo faccio io.
È una mezza bugia, non posso davvero sostituirmi a loro, ma ottengono quel sollievo momentaneo che interrompe il panico, risolve il cortocircuito e fa proseguire il discorso. E così posso spiegare loro come qualcuno ovviamente penserà male, ma i dati di fatto ci dicono che saranno pochi rispetto al tutto. Posso descrivere come ci sia modo e modo di chiedere, fare esempi di richiesta elegante ed indiretta, presentargli un ventaglio di possibilità. In questo modo il problema si ridimensiona, perde forza, diventa una qualcosa di spiacevole ma gestibile.
E a quel punto posso svelargli la mezza verità della “mossa del capro”: con i donatori più difficili io ci sarò davvero, farò da scudo e affronterò le critiche al loro posto.
N.3 La leggenda metropolitana. (Ma funziona davvero?)
È meno comune, ma è la paura più insidiosa in cui mi sono imbattuto. Come mai? Perché se fossimo nel gioco dall’oca sarebbe il “Riparti dal Via”. Di solito emerge intorno al minuto numero quarantacinque, quando sto finendo di spiegare a grandi linee il piano d’azione che userei per la realtà. Cascare in questa paura significa vanificare tutti i risultati ottenuti fino a quel momento, dover ricominciare da capo.
😯 Ma questa roba funziona davvero?
Siamo gente scettica, dubitiamo come abitudine, ci crescono in questo modo e non mi sento di dire che sia una dinamica sbagliata. Dubitare è sano, tiene la mente attiva, ma spesso mascheriamo da dubbio la nostra ignoranza. Non conosco, quindi dubito. E la raccolta fondi, soprattutto se entriamo nelle sue dinamiche un po’ più tecniche, in Italia è una grande sconosciuta. Pertanto viene trattata come il mostro di Lochness.
Questa è la paura che, secondo me, cade nel campo della “speranza”.
Mi metto nei panni di una piccola realtà: hai problemi di budget, hai finito tutte le opzioni e uno sconosciuto ti dice che perfetti estranei daranno i soldi che servono per realizzare il tuo progetto. Troppo bello per essere vero… quindi non è vero! Se in una galleria buia vedi una luce in lontananza stai sicuro che sarà un treno diretto verso di te.
Per fortuna la soluzione è abbastanza semplice: fare degli esempi. Porto con me sempre testimonianze di altri clienti, ritagli di giornale in cui si parla di mie campagne riuscite e tra questi scelgo le realtà più vicine a loro, o che condividono una mission comune, e che magari possono conoscere. Più l’esempio colpisce nel segno, più velocemente si convincono che stiamo parlando di cose reali, che funzionano e che nel resto del mondo rappresentano la normalità.
Nella mia esperienza, tutte le piccole realtà sociali un poco si somigliano, hanno in comune piccole paure che emergono nell’accostarsi al mondo del fundraising. Un mondo alieno, a tratti incomprensibile. Un modo che, quando lo racconto, mi guardano come se fosse un film di fantascienza. Per loro sono l’abitante di un pianeta basato su dinamiche diverse dal profitto. Sono un extraterrestre, sono un U.F.O. (oggetto fundraiser non identificato): prima di capire cosa faccio devono convincersi della mia esistenza.
-Filippo Abrami-