#inpratica, perché e come fare comunicazione nel non profit in modo sensato?

#inpratica, perché e come fare comunicazione nel non profit in modo sensato?

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Torna la rubrica #inpratica, dedicata a intervistare esperti di alta qualità del mondo non profit che si offrono di dare indicazioni pratiche e concrete alle piccole organizzazioni come la tua.

Oggi è il turno di Matteo Adamoli, squisito per due motivi: da una parte è una persona estremamente pragmatica e di esperienza, dall’altra ha dalla sua l’accademia nel senso migliore del termine (Matteo è Docente universitario di Digital Storytelling e Pedagogia della Comunicazione, giornalista pubblicista e consulente aziendale per attività comunicative volte alla progettazione e all’uso strategico, narrativo e sociale dei media).

Per via di questo profilo così completo, ti invito a leggere con attenzione le argomentazioni e le indicazioni operative di Matteo, vedrai che tra le righe c’è molto di sano e buono per migliorare la comunicazione della tua piccola organizzazione!


Ciao Matteo, grazie di dedicare del tempo ad affrontare un tema che, mai come oggi, dovrebbe far risuonare le corde dell’interesse di tutte le organizzazioni non profit in circolazione! Cominciamo la nostra chiacchierata chiarendo qual è la tua principale competenza: supporti le organizzazioni del terzo settore a “comunicare il sociale”. E cioè?

Allora, stiamo parlando di comunicazione, cioè di una facoltà umana innata che viene ripresa e applicata come metodologia e tecnica al lavoro di piccole o grandi organizzazioni.

A questo associamo “sociale”, che è tutto l’insieme delle finalità e delle iniziative propri degli attori che si muovono nel mondo del non profit.

E perché c’è bisogno di parlare di comunicazione in modo specifico per il non profit, associando a comunicazione quel “sociale”?

Bisogna dare un po’ di contesto: fino a qualche tempo fa il mondo del non profit si separava dal profit non solo per valori di riferimento, tipologia di attività preminenti, dimensioni delle aziende, ma anche perché il mondo della comunicazione veniva visto come una prerogativa del profit.

Al non profit la comunicazione semplicemente non interessava. Questo avveniva perché la comunicazione era vista come qualcosa di non necessario. La mentalità era del tipo: “Facciamo il nostro lavoro e facciamolo bene, altro non serve fare e non dobbiamo farlo”. Questa era l’opinione diffusa nel non profit, quasi che la comunicazione fosse una cosa negativa!

Il non profit manteneva questo approccio così cauto e sospettoso anche perché faceva una grande confusione con certi approcci molto aggressivi del marketing e con l’advertising più spinto, che erano e ancora oggi sono prerogative del profit.

Ora che la separazione tra profit e non profit va sempre più assottigliandosi, con la disponibilità di nuovi mezzi di comunicazione e con la necessità del non profit di raccontare quel che fa – anche in una logica di competizione nel mercato – , fare comunicazione sociale è da una parte un’esigenza, dall’altra un’opportunità chiara e convincente.

Matteo, ho l’impressione che per capire meglio l’importanza di comunicare il sociale, dobbiamo tornare indietro di qualche passo, cioè ai motivi della chiusura del mondo non profit rispetto a questa funzione aziendale fondamentale. Quindi, quali sono secondo te le ragioni più profonde di questa diffidenza?

Dunque, ci sono delle motivazioni macro, proprie del contesto del Paese-Italia: il comparto del non profit per decenni è stato caratterizzato da una relazione molto forte col pubblico (un esempio su tutti: l’affidamento di servizi alle imprese sociali, che per molto tempo è stato dato per naturale e per scontato) e grazie al polmone finanziario costituito da contributi pubblici molto sostanziosi, per moltissime aziende non profit non c’era motivo di darsi da fare per vendere.

C’erano i bandi, le gare di appalto, contributi a fondo perduto, finanziamenti a tasso agevolato… tutto “certo,” cioè regolare, ripetuto nel tempo, stabile per importi.

Ora che il pubblico ha ridotto, se non in alcuni casi eliminato, questo modello di affidamento al non profit per la produzione dei servizi di pubblico interesse, la partita è cambiata completamente.

Ci sono altri fattori di contesto che alimentano la spinta verso la necessità e l’opportunità di fare buona comunicazione sociale?

Certo: la competizione nel mercato dei prodotti e dei servizi è assolutamente a tutto campo. Un’azienda non profit ha i suoi competitor non solo tra le altre aziende non profit, ma anche tra le imprese del profit, anche tra le multinazionali. La natura giuridica dei competitor non è più rilevante, perché la competizione è tutta sui servizi e sui prodotti, che a volte sono davvero molto molto simili (qualità a parte).

Matteo, trovi che ci siano anche motivazioni più “micro”, interne alle singole organizzazioni non profit?

Guardando all’interno delle singola aziende, la cosa è piuttosto semplice: in un mercato iper-competitivo, bisogna trovare un proprio posizionamento, e questo ovviamente deve avvenire anche grazie all’attività di comunicazione. Una qualsiasi azienda del non profit ha bisogno di raccontarsi in un modo appropriato per proporre sul mercato i propri servizi, prodotti, proposte.

Pensi che sia una sfida diversa per un’organizzazione piccola? O le dinamiche sono le stesse che vivono le grandi organizzazioni?

Oggi le grandi organizzazioni non profit di norma sono già attrezzate. E’ così perché hanno le possibilità economiche per farlo e perché sono ambienti di lavoro attrattivi di persone di talento e competenti nella comunicazione.

Invece, le piccole organizzazioni spesso sono sguarnite, sia per limiti di tipo economico, sia perché comunque di base quasi sempre non hanno risorse umane interne dedicate alla comunicazione… ma anche perché non sanno dove andarle a trovare nel mercato.

Veniamo al succo di questa rubrica. Matteo, #inpratica quando parliamo di comunicazione sociale, quali sono gli strumenti che un’organizzazione dovrebbe fare suoi?

Prima di tutto, prima dei supporti e prima delle uscite di qualsiasi tipo, serve un piano di comunicazione. Ma cos’è un piano di comunicazione? Molte piccole organizzazioni non lo sanno, non sanno come stenderlo, non ne conoscono e alla peggio non ne riconoscono l’utilità.

Ma un piano di comunicazione, come da nome, ha una funzione semplice e irrinunciabile al giorno d’oggi: ci serve per programmare la comunicazione, di modo che sia continua, coerente, finalizzata, valutabile nei suoi effetti.

Introducendo il piano di comunicazione come strumento, stai parlando quindi di un’attività assolutamente non spontanea o “libera”…

Si, parlo della comunicazione come di un’attività strutturata, in quattro fasi:

  • analisi interna e degli obiettivi della comunicazione

  • strategia di comunicazione

  • comunicazione operativa

  • valutazione

Il piano di comunicazione è così importante che, come docente e come consulente di organizzazioni non profit – ma anche del profit -, una grande parte del mio intervento riguarda proprio redigere piani di comunicazione e far capire perché rispettarli sia fondamentale per ottenere dei risultati valutabili.

Che tipo di supporto offri alle organizzazioni con cui collabori?

Spaziamo molto, ma certi temi ritornano più spesso: la definizione del brand, come creare l’identità di un certo marchio a valenza territoriale, come posizionarsi rispetto a un prodotto o a una nicchia di mercato, come consolidare il proprio posizionamento in una certa zona geografica, come creare una narrazione efficace…

Nell’ambito comunicativo ci sono alcuni concetti “alti” che a volte sfiorano l’astratto e il teorico. A seguire troppo il manuale, le organizzazioni non profit, in particolare le più piccole, non rischiano di disperdere energie e tempo in ambiti che sono corretti solo didatticamente?

In realtà progettare la comunicazione significa mettere in pratica dei modelli a seconda delle esigenze e delle finalità dell’organizzazione. Quali sono gli obiettivi dell’azienda non profit? La comunicazione entra in gioco come componete quasi subito e quasi in ogni attività. Per questo, a cascata, entrano in campo la necessità di impostare un corpo di azioni che prendono a riferimento dei modelli orientativi che vanno declinati sulle caratteristiche dell’azienda non profit.

Torniamo a quel “sociale” che ci porta appunta qui a parlare di “comunicazione sociale”. Da docente e da consulente, come ce lo spieghi il valore che ha?

La risposta sta tutta nel valore aggiunto che il non profit può far valere rispetto al mondo profit. La componente valoriale dei prodotti e dei servizi, a livello di trend di mercato, viene sempre più apprezzata, diventa un fattore competitivo.

Ci fai degli esempi?

Un esempio lampante è il settore del food. Il consumatore medio un tempo voleva cibo economico e accessibile. Oggi invece la tendenza del consumatore medio è diventata cercare prodotti che siano anche salutari. La salute è un valore, che da sempre è una parola chiave del sistema produttivo del non profit.

La stessa cosa per analogia avviene per i tessuti, per il vestiario. Quindi, invece di andare da brand che vendono t-shirt o vestito a pochi soldi, il consumatore vuole sincerarsi anche un tessuto che sia salubre, che sia lavorato localmente, che rispetti l’equità delle condizioni di lavoro degli operai e delle operaie…

Quando il non profit è in grado di seguire questi trend nelle preferenze dei consumatori e proporre prodotti e servizi coerenti con questi tipo di ricerca, già di partenza ha un valore aggiunto che il profit non ha, o almeno non sempre.

Hai un caso da presentarci per mettere le cose più #inpratica possibile?

Ti faccio l’esempio del marchio Progetto Quid per cui ho lavorato: sono un’impresa sociale di Verona e il team è molto giovane. Recuperano tessuti di scarto di grandi aziende (valore della sostenibilità), vengono progettati nuovi capi da giovani designer (valore delle opportunità alle giovani generazioni); li fanno lavorare da donne in condizione di fragilità (valore dell’inclusione) che così vengono reinserite nel mondo del lavoro (valore del lavoro). Questi capi numerati, che sono pezzi unici, vengono venduti online e in store qui in Italia. Il tutto è sostenuto da un’ottima comunicazione, che parte da ottimi presupposti e che ha una grande efficacia. In questo modo, progetto Quid compete dentro una nicchia di mercato che anche grosse aziende vorrebbero occupare, ma non possono perché manca loro un’autentica eticità dell’indumento dal punto di vista sociale e ambientale.

Ottimo esempio! Ma quindi, alla fine per comunicare bene servono enormi budget ed esperti ferratissimi in materia o la cosa è più semplice e alla portata?

No, fare buona comunicazione sociale in primis non è una questione di budget. E’ molto più una questione di competenze, di riconoscere che la comunicazione va fatta, e da lì andare trovare la propria strada: frequentare dei percorsi formativi di modo che le competenze comunicative siano implementate all’interno dello staff attuale dell’azienda non profit, oppure cercare nuove figure professionali e dedicate nel disponibili nel mercato del lavoro.

Torniamo ancora alla formula magica di questa rubrica. Matteo, indicaci quali sono le prime cose da fare, #inpratica, per una piccola organizzazione che vuole attivarsi sulla comunicazione sociale.

In rigoroso ordine e sequenza…

Per prima cosa, fare un’analisi dei propri obiettivi aziendali e quindi dei fabbisogni di comunicazione.

In parallelo, fare cultura su un aspetto particolare: cioè, l’organizzazione deve capire e sedimentare che l’attività di comunicazione va di pari passo con la progettazione delle proprie attività.

Il tutto va fatto seguendo un metodo scientifico, che non vuol dire complicato, bensì ordinato e rigoroso, soprattutto facendo riferimento a strategie e impiegando metodologie che siano entrambe valutabili, perché questa realtà deve misurare quali sono i ritorni sull’investimento in comunicazione.

In sintesi, possiamo dire:

  1. Che obiettivi di impresa voglio raggiungere?

  2. Utilizzo questi determinati strumenti di comunicazione e non altri

  3. Verifico la performance di quest’attività

Nel campo della comunicazione sociale, ci sono dei miti e delle illusioni comuni dai quali è bene mettere in guardia i nostri lettori?

Si, assolutamente! Bisogna stare molto ma molto attenti a non finire a credere al mito della comunicazione che risolve i problemi, perché spesso i problemi più critici sono di natura organizzativa se non addirittura imprenditoriale. Per paradosso, se mi metto a comunicare tanto e continuativamente in presenza di problemi come questi, di fatto sto puntando una lente di ingrandimento su questi stessi problemi, che diventano più evidenti di prima agli occhi esterni, perché comunicando rendo più accessibile l’informazione che riguarda la mia realtà, anche oltre i confini che si possono immaginare!

Ancora: molti credono che i social network e i new media siano una panacea, semplicemente perché se ne parla molto, in toni spesso sensazionalistici ed enfatici. Invece sono solo strumenti come tutti gli altri e se manca una strategia generale che li contenga, li incanali e li renda funzionali a un obiettivo, non hanno senso di essere utilizzati, o possono addirittura fare danni.

Cosa si perde chi nel non profit si attarda nel comunicare?

Credo che non sia tanto questione di perdersi qualcosa, piuttosto è questione di cogliere le opportunità insite in strategie, metodologie, strumenti e tecniche consolidati per avere una marcia in più per stare nel mercato in maniera efficace ed efficiente.

Matteo, siamo arrivati alla fine. Visto che ci hai dato una mano fin qua, dai delle dritte finali alle piccole organizzazioni non profit che vogliono dare il “la” alla loro attività di comunicazione sociale?

Ok, io le chiamo “Indicazioni operative”, non dritte, altrimenti sembra che stiamo facendo un discorso tutto amatoriale 🙂 . Comunque, eccole qui:

  1. Condurre un’analisi per capire quali sono gli obiettivi e le finalità di comunicazione che ci si vuole dare per i prossimi 1-2 anni

  2. Fatta l’analisi, definire la vostra strategia operativa e le attività da realizzare, con gli strumenti che permettono di raggiungere gli obiettivi fissati

  3. A cose fatte, svolgere una valutazione di tutto il lavoro fatto, che consenta di avere dei dati confrontabili e quindi di ricalibrarti anno per anno.

Grazie mille Matteo, da parte di tutto il popolo delle piccole organizzazioni!


Puoi conttattare Matteo Adamoli suabout.me/matteoadamoli 3487368857 | adamatteo@gmail.com

 

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