DOMANDA
Ciao Riccardo,
l’organizzazione di cui faccio parte si sta trasformando in un patto per i beni comuni per gestire insieme a altre sette realtà uno spazio che il comune ci ha dato in concessione.
Oltre a trovare l’accordo tra di noi per definirci come entità unica (e già questo è molto complesso), dobbiamo stabilire regole e strategie comuni di lavoro sull’organizzazione, sulla gestione dello spazio, sulla comunicazione e sul fundraising (saremo seguiti da una consulente).
Ora dobbiamo fare un lavoro importante per aprirci al quartiere.
Pensavamo di fare un’indagine per capire cosa vorrebbe trovare il quartiere in quello spazio, come lo immagina etc. Francamente non so da dove cominciare e neppure se è la strategia giusta o se è necessario fare tutt’altro lavoro in questa fase.
Grazie per ogni più piccolo suggerimento che mi darai!
– Melania –
RISPOSTA
Ciao Melania, bella domanda. E sai che la risposta non è facile?
Si, perché una cosa è dire: hai tutti i tasselli di fundraising e marketing ma disordinati, quindi ecco come metterli a posto per fare raccolta fondi.
Un’altro paio di maniche invece è lavorare sui processi organizzativi, che richiedono di applicarsi su materie dove il calcolo matematico e le previsioni contano molto poco, come:
- la sociologia delle organizzazioni
- la psicologia delle organizzazioni
- la psicologia degli singoli che ne fanno parte
E infatti tu apri dicendo: già è difficile trovare un accordo tra 7 realtà che ormai devono definirsi come un’unica entità. Ma perché è così difficile? Perché quando c’è da mettersi d’accordo, bisogna sempre valutare che si sovrappongono questi livelli:
- il livello degli interessi delle organizzazioni (al plurale), le quali possono avere ispirazioni e finalità analoghe, ma maniere molto diverse di intendere il come, il cosa e il perché
- il livello degli interessi della singola organizzazione, che decide collegialmente facendo sintesi di tensioni differenti… cioè, la singola organizzazione di solito non decide all’unanimità!
- Il livello degli interessi degli individui che fanno parte dell’organizzazione e che partecipano ai processi decisionali, ma che possono farlo senza convinzione, o decidono a favore di scelte che personalmente non condividono, o che intimamente disapprovano
Tradotto sul vostro caso: a trovare accordo, sinergia e regole… hai voglia! Il che da un parte è una difficoltà normale, dall’altra è una sfida enorme. Ci saranno piccole regole da condividere (es: orario limite di apertura degli spazi) e grandi contrasti da dirimere (questa tipologia di persone può o non può accedere agli spazi?).
L’esempio più eclatante è quello dei consorzi di cooperative sociali: nascono per fare filiera o distretto di produzione e servizi… e questo vorrebbe essere un mettere in comune e spingere assieme in una direzione, ma poi molto più spesso si risolve in uno condividere occasionalmente degli spazi, suddividere dei costi, fare economie di scala, centralizzare alcune funzioni aziendali e servizi e continuare ognuno a farsi gli affari propri.
Per fare davvero un viaggio assieme, servirebbero timonieri impavidi ai posti di guida di ogni organizzazione, capaci di ricevere il consenso dei loro equipaggi, ispirati dalla personalità genuina e carismatica di una o due persone che si sobbarcano il bello e difficile ruolo di Guide da qui al futuro… Cose che esistono e si vedono in giro per carità, ma… poche!
Ora, andiamo al sodo: come si fa a risolvere la prima parte, quella organizzativa?
L’esperienza a me insegna che proprio non ci sono formule magiche e la cosa ideale sarebbe quella di investire in un percorso di accompagnamento da parte di coach o counselor veramente preparati.
Non sto parlando di motivatori (statene alla larga, non servono assolutamente a nulla), ma di professionisti capaci di lavorare sui due livelli, che riassumiamo in:
- il singolo individuo, che può essere un lavoratore o un volontario
- il gruppo, sia che parliamo della singola azienda o dell’insieme delle sette aziende
Una simile figura ha la funzione di accompagnare i singoli e i gruppi ad imparare a lavorare assieme, non solo a livello di empatia e buoni intenti, ma anche (e soprattutto) di flussi di lavoro e procedure organizzative.
Fare sinergia tra aziende significa o se no altro dovrebbe anche significare rivedere gli organigrammi aziendali in funzione di un più ampio organigramma di gruppo (torna sopra di qualche riga per i benefici che ne conseguono).
Cosa succede quando si avvia un percorso di questo tipo?
Che la gente sbrocca, scazza e si impermalosisce, allora il coach o consuleor capace riesce anche a lavorare su questi aspetti di psicologia delle organizzazioni e degli individui, non per fare psicoterapia 🙂 , ma per agire sulle dinamiche di mediazione del conflitto e questo, al di là del tamponare l’emergenza, diventa patrimonio culturale e professionale dell’organizzazione (“come si lavora assieme verso un obiettivo”).
Alla fine resterà sempre che chi odia qualcuno continuerà a farlo e che ama qualcuno continuerà a farlo. E su questo, non può essere evidentemente un approccio orientato all’azienda a dare i miglioramenti, ma piuttosto all’individuo, che però deve muovere il primo passo da solo, rivedendo una serie di esperienze personali (sto dicendo che: qui non c’è un cacchio da fare e non è caso di disperdere energie dell’organizzazione in queste situazioni estremamente personali, che se guardi bene poco o nulla hanno a che fare con l’ambito aziendale!).
E ora passiamo al quartiere. Il quartiere, assolutamente, va coinvolto!
Cosa state facendo voi prendendo casa in quel quartiere? Partecipando alla generazione di welfare per la microcomunità locale che lo abita.
Quindi, prendiamo la questione alla rovescia: cosa rischiate a NON coinvolgere il quartiere nella progettazione della vostra presenza lì? Possiamo elencare che:
- non capirete quali sono i bisogni reali e dichiarati di chi abita il quartiere
- non capirete quali sono i desideri reali del quartiere
- non saprete quali progettualità formali (di organizzazioni private o pubbliche) o informali (di gruppi di cittadini, o di singoli individui) sono già passate di lì negli anni per rispondere al soddisfacimento dei bisogni e desideri di cui sopra
- non conoscerete quali sono le risorse già presenti nel quartiere, che sono risorse già attive nel soddisfacimento dei bisogni e dei desideri oppure attivabili in quella direzione
- non conoscerete la storia, gli stili, le tradizioni, il gergo della comunità che popola quel quartiere
- non saprete chi sono i veri “influencer” del quartiere: a volte ha senso parlare “con tutti”, a volte coi pochissimi che davvero sono la voce di interessi comuni
- sarete facilmente percepiti come alieni atterrati “a casa mia”
- sarete facilmente percepiti come aziende fornitrici di servizi, proprio come un gioielleria, un panificio, un’agenzia di private banking…
- sarete facilmente confusi e identificati con una propaggine dell’ente pubblico, mentre voi avete storie personali e aziendali che motivano la vostra presenza in quel quartiere
Il danno più grave del NON coinvolgere la comunità del quartiere nel definire cosa fare nel spazio comune che gestirete, è progettare dei servizi (non importa che siano gratuiti o a pagamento) che non hanno “mercato” (o “utenza”).
La soluzione ottimale quindi è effettivamente iniziare a indagare su cosa vuole il quartiere e capire cosa potete offrire di coerente a partire dalla risorse interne al vostro gruppo di aziende (vuol dire: non create nulla di nuovo, ma re-impaginate quello che già c’è, in termini di competenze, persone, progettualità attive o concluse), quindi capire che ruolo attivo di cogestione può avere l’abitante del quartiere, come volontario o prestatore d’opera occasionale.
Quanto all’indagine: DOVETE condurla!
Il quartiere in ogni caso sarà popolato già da microrealtà e centri di aggregazione che devono essere i vostri primi interlocutori, le vostre fonti di conoscenza, senza le quali avete già perso.
Loro vi possono letteralmente insegnare a stare nel quartiere, sono loro che vi possono indicare chi sono le persone e realtà chiave da sentire, sono loro che possono aprirvi al quartiere e alle sue tante piccole comunità di portatori di interessi. Sono loro che quando farete “chiamata alle armi, abbiamo un centro da mostrarvi!” porteranno la gente a visitarlo e sono loro che in quell’occasione devono avere il ruolo dei protagonisti.
Voi fate da collante, da nodo di rete, da promotori, ma non vi arrogate (e non potrete farlo per un bel po’) il ruolo di “guide del quartiere”. Anzi, avere questa pretesa è la maniera più veloce di essere rigettati dal quartiere (che ha i suoi “anticorpi”)!
La vostra faccia pubblica dovrà essere quella del “Centro XYZ del Quartiere” e non “Noi siamo quelli del gruppo di organizzazioni” o del “Centro XYZ che appartiene a 7 organizzazioni”.
Voi siete ospiti cordialissimi e impegnatissimi a rendere omaggio alla lunga vita del quartiere, siete al suo servizio. Ripeto: questo vuol dire portare il quartiere dentro la progettazione e gestione del centro.
Diversamente, sicuramente avrete un centro da gestire, ma difficile da riempire di contenuti e di frequentatori per mooooolto tempo.
Chiusura: sai cosa vogliono gli enti di erogazione su questi progetti, ben disponibili a metterci tanti bei soldini? Co-progettazione, co-gestione, economie circolari di comunità, parternariati ampi e di lunga durata… insomma, l’esatto contrario di aprire il “nostro centro” a casa d’altri! 😉
Chiusura delle chiusure: in una progetto del genere, le donazioni dagli abitanti arrivano come conseguenza di tutto questo lavoro di presenza generosa, attenta, coinvolgente e disponibile nel quartiere.
E, togliendo di mezzo banchetti, pesche e lotterie e altro di simile (che schifo non fa, anzi, fateli! Ma non è propriamente una donazione…) le donazioni arriveranno quando le persone vi saranno riconoscenti di essere lì con loro.
Un caro saluto, fateci sapere come vi muoverete!
– Riccardo Friede –
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